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Una giornata con la testa tra le nuvole: la partenza [parte 1 di 3]

Una giornata con la testa tra le nuvole: la partenza [parte 1 di 3]

È mezzanotte e venti qui in Qatar, a Doha, ed io devo ancora non aver realizzato nulla di quello che sta succedendo, perché continuo a vedere video di food blogger in Cina dicendomi “oh questo lo vorrei tanto mangiare”.

Per dare un riferimento, tra due ore e poco più mi imbarco per Shanghai. Che è in Cina. Dove si mangia cibo cinese.

La giornata è iniziata alle 9 ore italiane di un martedì 17. Io e Chiara abbiamo passato tutta la notte abbracciati: dal giorno prima Chiara ha sbloccato l’abilità pazzesca del piantino a comando, che trovo una cosa meravigliosa.

Mi sveglio con Virtual Insanity di Jamiroquai che va in loop per almeno 20 minuti: è la sveglia di mia madre, nell’altra stanza. Lei non la sentiva, ed io intanto ho visto sacrificare un altro artista sull’altare delle sveglie customizzate.

Alle 10:40 arrivano anche i genitori di Chiara da Bologna per un saluto e per delle frittate di pasta a cui non si può dire di no e per le 12:30 siamo tutti e cinque diretti verso Malpensa.

Non proverò a spettacolarizzare a tutti i costi queste due ore che ci sono state in mezzo. C’è stata la solita follia pre-partenza che a chiunque sarà già capitata: la staffetta per andare in bagno, una valigia che non vuole saperne di chiudersi, un lucchetto che non riconosce l’autorità umana e decide di propria sponte il codice di sblocco senza condividere l’informazione. Poi i trenta minuti in auto per l’aeroporto, mentre a turno iniziamo a girare tutte le novecentonovantanove combinazioni del lucchetto infame.

Il tutto condito da qualche adorabile piantino telecomandato di Chiara.

Arriviamo in aeroporto e, come all’inizio di ogni viaggio in solitaria, mi metto in fila per fare il check-in del bagaglio mentre mia madre mi ripete trecento volte in quindici minuti che sto facendo la fila sbagliata (salvo poi scoprire che stavo facendo la fila giusta).

La signora all’imbarco mi abbona un paio di kg sul bagaglio a mano: anche qui, le solite cose, nulla che non si sia già visto o sentito.

Nella mia testa è esattamente così: qualcosa che non si sia già visto o sentito: uno prende un aereo in un paese e si trova in un altro paese, più lineare di così si muore.

È chiaro che il corteo funebre che mi fa seguito racconta una storia diversa e, per quanto sia affossato nella mia fase di negazione, qualcosa all’altezza stomaco lentamente inizia a gorgogliare – è che è presto per riuscire a dargli un nome.

Ad ogni modo, faccio il check-in e scambio uno zainone da backpack con due pezzi di carta: uno dice Milano – Shanghai e l’altro Shanghai – Doha. Stiamo ancora parlando di una normalissima transazione.  

Ci sediamo sulle sedioline dell’aeroporto e iniziamo a mangiare le nostre frittate di pasta in stagnola di fianco ad una signora del sud est asiatico di età indefinita tra i centocinquanta e i duecento anni. Mangiamo tutto ed è tutto buonissimo anche se il padre di Chiara dice che è freddo di frigo: come al solito ha qualcosa da ridire su qualsiasi cosa egli stesso abbia cucinato, salvo non realizzare mai che è tutto sempre la fine del mondo. Ognuno ha i propri difetti, dico io. 

Una volta finito il mangiare e dopo aver visto – azzardo, eh – la thailandese più vecchia della storia venire portata via con un monopattino-sedia a rotelle (non c’è un modo migliore di descriverlo senza togliere spazio all’epicità e al contempo la praticità del mezzo), ce ne andiamo a bere un caffettino nell’attesa della comunicazione del gate.  

Fin qui Chiara non piange da un paio di ore – trovo opportuno premere il bottoncino del pianto per farla sfogare, e così l’abbraccio un po’ più stretto: la più dolce pentola a pressione del mondo. 

Intanto che il tutto avviene, mia madre arriva con il tempismo peggiore del mondo a comunicare l’annuncio del gate. Penso che tutti abbiamo un attimo fatto un passo più avanti nel processo di realizzazione, in quel momento: cioè, io sto ancora fisso a pensare a quanto sia razionale il tutto, però quella cosa che prima gorgogliava, ora sta iniziando a sobbollire

Ammazzato il tempo che potevamo ammazzare, scendiamo al piano inferiore alla misera food court di Malpensa e ci vediamo la strada bloccata dai controlli anti-covid. O meglio, da quelli che erano all’epoca i controlli anti-covid ed ora sono rimasti un retaggio pseudo-arcaico (sempre utili a garantire la quasi doverosa crescente inefficienza del Paese): da quel gate potevo passare solo io

Ora, questa era una informazione che già avevo: era un anno che non prendevamo un aereo, ma se a Ottobre 2022 c’era ancora quel controllo con una situazione COVID sostanzialmente domata, non c’era vera ragione di credere che adesso sarebbe andato via. Non è da escludere che nel mio processo di negazione quella informazione fosse stata negata: non sono un esperto, ma se il mio cervello ha fatto anche solo la metà di quello che penso abbia fatto quel giorno, possiamo dire che abbia lavorato il doppio di quanto lavori di solito. 

E così siamo lì: io, mia madre, Chiara ed i suoi genitori, tutti fermi a guardarci le punte dei piedi per un secondo di troppo finché qualcuno non troverà il coraggio di rompere il ghiaccio. 

Io so che non sto andando in guerra, ma mia madre probabilmente non è dello stesso avviso e si immagina me nella giungla, machete nella mano destra, sangue spruzzato su tutto il corpo, intento ad uccidere a sangue freddo dinosauri per poterne vendere le carni ai contrabbandieri e poter finalmente riscattare il passaporto, che mi è stato sottratto in una colluttazione con tanto di coreografia alla Kill Bill

Non vedere Chiara per tre mesi sarà difficilissimo, ma so che io avrò più di un contentino per indorare la pillola, mentre a lei spetterà l’ingrato compito di tirare avanti la baracca in casa e a lavoro da sola, e questo sono sicuro le renda il tutto ancora più difficile da digerire. E poi abbiamo vissuto in maniera simbiotica per i passati tre anni, non è una separazione facile sotto aspetto alcuno. 

I genitori di Chiara invece mi hanno praticamente adottato come secondo figlio e so che condividono preoccupazioni simili a quelle di mia madre. Tra l’altro, non riesco a credere che non stessero immaginando un po’ che tra qualche tempo al posto mio ci sarà Chiara. 

Insomma: io potrò essere in fase di negazione come descritta da textbook della psicologia amatoriale dell’amichetto empatico in seconda superiore, però capisco il peso della situazione. So cosa sto lasciando, e so che, sebbene non stia lasciando per sempre, quando ritornerà ci sarà qualcosa in me di nuovo, e le regole del gioco inevitabilmente verranno influenzate da questo fatto.  

Quando lasci casa tanto a lungo non lasci né le persone né i legami che hai creato con loro: lasci il filtro attraverso il quale vivi questi legami. Non importa che si parta per un viaggio, o per un erasmus, o per andare a lavorare all’estero: al ritorno ci sarà qualcosa di diverso, per quanto impercettibile possa essere. 

In seguito agli abbracci più lunghi del mondo, e mi viene il magone a ripensarci ora, supero i gate e procedo ai metal detector.  

Per non cedere troppo facilmente a facili singhiozzi, non perdo l’occasione di fare una figura da idiota con il controllo doganale: passo lo zaino di sotto e vedo che dall’altra parte del rullo viene spostato sul nastro dei controlli. La mia testa fa subito “ecco, vedi che c’è troppa roba là dentro e qualcosa salta fuori per forza”. 

Arriva un ragazzo e mi guarda con la faccia più compassionevole che il creato abbia mai generato e mi fa: “ma te davvero stai provando ad imbarcare un coltello”. Io rido e mi ricordo del set di posate da viaggio (primo di una lunga serie di acquisti idioti e inutili, giustificabili solo sotto la luce degli algoritmi di Amazon), poi ride pure lui, butta il coltello ed io posso andare. 

Tempo due secondi mi arriva una chiamata di Chiara che esordisce con “è il coltello, vero? Ti hanno fermato per il coltello, lo sapevo, te l’ho anche lavato stamattina e non ci ho pensato”. E quindi siamo in due ad essere polli. 

Da questo momento in poi il castello è un po’ franato: la consapevolezza che non vedrò nessuno della mia bolla per un sacco di tempo è finalmente arrivata. Non si porta dietro conseguenze di sorta in questo momento, perché non ci sono elementi per capire fino in fondo a cosa sto andando incontro, ma posso finalmente riconoscere a me stesso di non essere in completa negazione. Yay! 

Da lì in poi le cose vanno davvero come devono andare: raggiungo il mio gate, mi metto in fila, incrocio Fabio Caressa, importuno Fabio Caressa per un selfie, passo il gate e mi accodo per essere accomodato. Sono ufficialmente sull’aereo.

Si ok, e poi?
Ci vediamo presto per la parte 2! 🛫


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