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Una giornata con la testa tra le nuvole: l’arrivo [parte 3 di 3]

Una giornata con la testa tra le nuvole: l’arrivo [parte 3 di 3]

Lo sbarco dall’aereo non è trionfale come mi immaginavo: un ragazzo prova a far partire un applauso ma viene fermato da una gomitata della ragazza.

Scendo dall’aereo insieme agli altri e lentamente la folla si dirada mano a mano che ci incamminiamo lungo il corridoio. La prima cosa che noto è il silenzio in pieno giorno: tutti camminano ordinati e nessuno apre bocca.

Seguo il percorso finché non vedo un dispenser di acqua: mi ci tuffo, salvo scoprire che serviva solo acqua tiepida o bollente. Perché? La medicina tradizionale sostiene che faccia bene, ma per me c’è un complotto molto più grande delle lobby dei termostati sotto.  

Moderatamente confuso, riempio solo metà borraccia e proseguo per la strada. 

Il giocoso processo di immigrazione in Cina

Da qui in poi iniziano gli Hunger Games dell’immigrazione cinese. Tra le due e le cinquemila persone, vengono smistate: un buon 20% va nella fila Resident, mentre il significativo residuo pascola nella sua eterogeneità etnica lungo varie prove da superare, senza una persona o un cartello inglese che indichi nel dettaglio cosa stia davvero succedendo.  

La prima è “recupera le tue impronte digitali“. Facile questa: prendi il passaporto, lo scansioni, la macchina legge la tua nazionalità e una voce registrata nella tua lingua ti dice cosa fare. Alla fine del processo ti danno uno scontrino da non perdere assolutamente, costi quel che costi. 

Procedo seguendo la freccia e ad un certo punto mi accorgo di essere in un collo di bottiglia: più stranieri del solito (ora anche io) sono fermi con sguardo confuso e perplesso. Vedo molti fotografare un cartello: mi avvicino e vedo il mio primo QR-code di Alipay. “Collegati, scansiona il codice, scarica la mini-app del corrispettivo del Ministero della Salute in Cina e dichiara di essere sano“: questa è la seconda prova. 

E qui tiro fuori, gagliardo, il mio asso dalla manica: io Alipay ce l’ho già, e l’ho configurato a casa! Ah! Vittoria! 

E invece no, perché Alipay deve scaricare la mini-app e per farlo necessità di internet, e l’unica wi-fi a disposizione richiede il numero di telefono cinese per poter autenticare la connessione.  

Poi realizzo: ma io ho scaricato anche una eSim da AirAlo prima di partire! Ringalluzzisco in un secondo, configuro la SIM e scarico la Mini-App. Seconda prova superata! 

Le tre ulteriori prove sono questione di pazienza: “passare uno scanner termometro per ri-assicurare che non sono malato(non sia mai che nei venti minuti di assembramento di fronte al cartellone di AliPay qualcuno mi abbia trasmesso il Covid più rapido del mondo), poi “trovare una penna e compilare un modulo che attesta informazioni comunque già fornite in fase di elaborazione del visto” ed infine c’è il boss finale: “infilarsi nel tetris umano per raggiungere il controllo dell’immigrazione“. 

Tutto il processo è molto fluido, ma richiede non meno di quarantacinque minuti. Ci sono migliaia di migranti da tutti i paesi e la Cina non è paese famoso per fare sconti su questioni burocratiche di immigrazione.  

Però tutto va bene e ne esco vincitore. Sono dall’altra parte, sono in Cina. 我在中国! 

Appena entro nella sezione di recupero bagagli intercetto il mio: gli salto addosso, lo domino e lo scarico su un carrello. Tutto procede per il meglio.  

Intanto Filippo, un amico di un amico al momento a Shanghai per perfezionare il suo cinese, mi scrive su WeChat: sto arrivando, dimmi dove sei. E io che ne so dove sono? Ma va bene così, l’entusiasmo è cavalcante. 

Tutto sta tirando liscio, ho solo bisogno di trovare una SIM card e siamo anni luce avanti sulla tabella di marcia che mi ero dato. 

L’annosa questione della SIM Card

Litigo con me stesso per venti minuti, cercando di decidere se spendere 50 € per una SIM card solo perché la ragazza al banco parla inglese sia o non sia una buona idea: quando rinsavisco scendo di sotto e cerco Filippo. Non lo trovo subito, quindi devo fare il mio primo contatto ravvicinato con il sino-tipo.  

Pesco il primo cinese a caso mentre sono in chiamata con Filippo, provo a spiccicare le tre frasi che conosco in cinese, fallisco miseramente e decido di mettergli il telefono in mano. Filippo, che il cinese invece lo parla e pure bene, mi trova in mezzo minuto.  

Ci resta solo di fare la SIM: peschiamo un banchetto, lui e la ragazza al banco confabulano tra di loro mentre io ho l’espressione di un neonato al battesimo (questo sarà un leit motiv del mese di viaggio successivo) – alla fine facciamo una benedetta SIM Card e siamo pronti per partire. 

Raggiungiamo la metro, compro un biglietto e un istante dopo siamo già sul treno. A questo punto ho già incrociato soggetti eccentrici, come una signora che portava con sé una damigiana di plastica piena di uova, ma so che c’è ancora tanto da vedere.

90 minuti di metropolitana dopo e siamo a Shanghai Railway Station – fermata della metro comoda per raggiungere il mio ostello. 

Shanghai

Il primo impatto con Shanghai è sbalordente. Siamo in una zona relativamente periferica, di certo non lussuosa né centrale, ma tutto è alto, nuovo, luminoso, pulito e silenzioso. Ora: sull’alto, nuovo e luminoso non avevo sorprese (Shanghai è praticamente stata rasa al suolo e ritirata su negli ultimi 30 anni di piani di miglioramento dell’infrastruttura urbana), sul silenzioso e pulito invece rimango di sasso.  

Shanghai (o la Cina in generale, o, cavolo, l’Asia intera) viene descritta come una città caotica, sporca, piena di smog, con persone troppo impegnate a portare avanti la loro vita da nemmeno vederti mentre camminano. L’immaginario che mi ero fatto era quello di una metropoli con gli steroidi – tipo una New York meno iconica, più incomunicabile e pericolosa. 

Quello che invece mi sono trovato di fronte, una volta messo il naso fuori dalla metro, era una piazza limpida, circondata da edifici altissimi, una luce abbastanza tenue dei lampioni e, soprattutto, ingestibile silenzio. Sono abituato alle metropoli, e ancor di più sono abituato alle stazioni dei treni delle metropoli. Non mi sono mai sentito al sicuro in nessuna città: Centrale a Milano? Termini a Roma? Port Authority o Penn’s Station a New York? Son tutti posti che in qualche modo mi hanno insegnato che la soglia dell’attenzione deve sempre restare alta.  

Nemmeno per un istante ho pensato che qualcuno potesse aggredirmi o rapinarmi: c’era solo da mettere un piede davanti l’altro e arrivare all’ostello. Il caldo umido, Filippo e qualche persona che andava per la propria a farmi compagnia. 

La strada per arrivare all’ostello è già una memoria onirica. Nessuno per strada, localini piccoli che ho visto in mille foto e video pieni di gente che mangia rumorosamente, qualche vecchio fuori che si fuma una sigaretta senza ciccare la cenere finché non perde la guerra contro la gravità, qualche gatto che si aggira furtivo illuminato dalle luci soffuse di lampioni radi. Nell’aria l’odore di cumino si alterna a quello dei gas di scarico dei pochi mezzi che ci superano, o a quello di fogna che risale da qualche tombino. E poi silenzio interrotto solamente da qualche sparuto grido dentro un locale, un rutto o uno sputo per terra (la vera colonna sonora dell’esperienza cinese). 

Raggiungiamo la via del mio ostello, superando tanti locali “hole in the wall”: ristorantini, tabaccherie, konbini, ripostigli non precisati dove venivano ammassati sacchi di cose senza troppi complimenti. Dentro, a prescindere dal tipo di locale, qualche famiglia impegnata a mangiare su tavolini reclinabili. 

Il primo di una interminabile serie di ostelli

Entriamo nell’ostello e ci rivolgiamo alla reception. Inglese molto basilare, ma sufficiente per farmi pagare: 515 yuan per 5 notti, grossomodo 60 €. Mi dà le chiavi e mi dice di salire al secondo piano. 

La strada tentacolare che mi porta alla camera si snoda per un corridoio sudicio superando sala comune, bagni comuni, camere private, uno spazio aperto su balcone e finalmente la mia camera, su un altro balcone. La mia camerata d’ostello è composta di quattro letti: scelgo sempre di prenderle il più piccole possibile perché minimizza l’entropia e il rischio di avere un coinquilino chiassoso o disordinato.  

La stanza è un bugigattolo di forse 10mq con due letti a castello e quattro armadietti: più che sufficiente per lo scopo che deve assolvere, se non fosse che realizzo subito che il materasso è alto quattro centimetri ed appoggiato su una tavola di compensato; sopra di esso un piumino invernale (alle 19 c’erano ancora 25 gradi e una umidità spaventosa).  

La prima cena

Abbraccio il mio fato, realizzando che avrei dormito malissimo per i successivi cinque giorni, e andiamo a mangiare qualcosa, io e Filippo. Prima però ci fermiamo in un negozio a prendere da bere: in Cina puoi liberamente entrare in un locale e mangiare, portandoti da bere da casa. Inoltre, non è previsto costo di servizio o coperto. 

Ripercorriamo la strada fatta in precedenza ed entriamo in un locale tutto rosso, con tante immagini di cartoni sulle pareti e molte lanterne. Ci fanno sedere su degli sgabelli minuscoli ed un tavolino molto basso: io ero felicissimo già solo per il fatto di aver lasciato i miei quintali di bagagli in ostello. Ma l’idea di essere dentro un vero ristorante cinese, con cinesi veri e cibo cinese vero? Non avevo elementi sufficienti per processarla il tutto a dovere! 

La prima cosa che realizzo è che da solo avrò enormi difficoltà ad avere qualsiasi conversazione di sorta: fa parte del gioco. Quindi mi godo il supporto di Filippo e faccio ordinare a lui: spiedini di agnello, di tofu, di qualcosa di incomprensibile e due balut. Più due mian (spaghetti) misti con wurstel, verdurine et cetera, e un piatto di cetrioli con salsa soia, coriandolo e noccioline. 

Il cibo è tutto pazzesco: gli spiedini sono molto speziati e saporiti, i mian sono migliori di quanto potessi immaginare e i cetrioli stemperano il piccante che ho messo (di mia sponte, perché al sud non si mangia piccante) un po’ ovunque. 

Il balut, che altri non è che una specialità filippina che prevede un uovo fecondato cotto con il pulcino ancora in stato embrionale dentro, non mi ha entusiasmato. Per quanto possa aver notato che il pulcino era ad uno stato molto più embrionale di quello filippino (lì si sentono proprio le ossicina ancora fragili e via dicendo), il gioco di consistenze diverse mi ha colto a metà tra l’impreparato e il disatteso, mentre il sapore è quello di un uovo sodo cotto troppo a lungo. Decisamente non è valsa la pena della crudeltà del piatto (per gli standard occidentali). Potrei riprovarlo, mi ricapitasse l’occasione, ma in generale non mi sento troppo incline. 

La prima notte

Una volta finito, saluto Filippo e mi incammino verso la mia nuova casa per cinque giorni. Come entro in camera, incontro il mio compagno di bunk-bed: un ragazzo di Xi’An che parlava letteralmente tre parole di inglese. Faccio il tentativo di comunicarci, fallisco tanto miseramente quanto prevedibilmente. 

Una cosa immediata da osservare è come i cinesi siano estremamente gentili, ma altrettanto timidi. Non sembra piacergli l’idea di esporsi in un contesto in cui non sono in controllo (parlare in inglese, ad esempio) e preferiscono sottrarsi completamente al confronto piuttosto. I pochi cinesi che però parlano correttamente inglese – scoprirò poi – sono tra le persone più spigliate e socievoli che si possano incontrare.

Dopodiché, come ogni volta che viaggio da solo, il gioco diventa quello di trovare la routine più adatta il prima possibile. Noto che abbiamo il bagno in camera e siamo quattro. La camera è grande una manciata di metri quadri ed il bagno è la metà: decido di farmi la doccia di sera, per evitare di svegliare gli altri prima del previsto, vado al bagno, mi lavo i denti – insomma, il solito. Quando sono pronto, mi preparo a distendermi sul peggiore letto della mia vita. Dormire per terra è quasi più comodo, però io sono esausto e, mentre litigo con le VPN che non funzionano, collasso. 

Mi risveglio verso le 2.30, per merito di un compagno di letto che – evidentemente – non segue la mia stessa etichetta di dormitorio: rientra in piena notte, accende le luci, mette la musica, e inizia a fare rumorosamente la valigia.  

Io ormai non so se sono più sveglio o blasfemo. Temporeggio tre minuti, ma ormai la frittata è fatta: sono cosciente. Decido di approfittarne per andare al bagno. La mia schiena è un incubo dopo nemmeno quattro ore scarse di sonno. 

Apro la tenda del letto e mi trovo davanti un ragazzotto indiano, super interessato a chiacchierare. Alle 2.30 del mattino.  

Io vado al bagno, e nel mentre raggiungo l’agnizione che di sonno me ne è rimasto davvero poco. Allora mi dico “perché no, facciamoci una chiacchierata con l’indiano socievole che mi ha buttato giù dal letto nel cuore della notte”. 

Esce fuori in realtà che quella chiacchierata è la svolta, perché l’indiano ha una VPN che io non avevo che – a differenza delle mie, pagate fior di quattrini – funziona correttamente. Oltre quello, ho trovato già un contatto per quando sarò a Jaipur, tra qualche mese. Il ragazzo è un dentista, era a Shanghai per una convention e aveva l’aereo che partiva da Pudong alle 8 del mattino, quindi aveva ben pensato di fare tardi quella sera e di restare sveglio. Me lo racconta mentre si accende una sigaretta in dormitorio, al chiuso. Rabbrividisco pensando a cosa mi aspetta in India. 

Ad ogni modo, verso le 3.15 lui decide di uscire di nuovo ed io di riprovare a dormire. Non avrò grande fortuna, visto che verrò di nuovo svegliato quando il dottore indiano prende tutto per partire verso l’aeroporto. Però questo mi ha dato la grande possibilità di vedere Shanghai all’alba.  

Di per sé suona come una esperienza bellissima, se non stessimo parlando di una città su una pianura con picchi del 95% di umidità al tramonto e alla mattina, e quindi tutto era sommerso di una nebbiolina banalotta.  

Ma questa è storia per un’altra volta.


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